La guerra civile colombiana ha provocato 220mila morti, migliaia di desaparecidos, 7 milioni di sfollati. Da 3 anni tra Farc e governo trattano per firmare l’accordo che potrebbe porre fine al più lungo conflitto armato dell’America latina
di Francesca Caprini *
La prima volta che siamo stati nel Meta, nel 2011, il verde dei boschi e dei prati quasi ci abbagliava. Le pianure erbose – vera ricchezza per gli allevatori di bestiame – si allungano fino ai piedi della Sierra della Macarena, avvolta da una perenne nebbia gonfia d’acqua. Ne discendono i grandi fiumi che viaggiano fino alla foresta amazzonica. Questa regione nel cuore della Colombia pulsa di vita, ricca d’acqua e biodiversità come pochi posti al mondo. Lo attraversavamo in moto con un prete del posto che ci guidava fra le comunità contadine e ci raccontava la storia di una terra disseminata di morte.
È nel Meta che nel 1984 nasceva l’Unión patriótica (Up), il partito di ispirazione marxista, primo esperimento di reinserimento nella vita politica dei militanti delle Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia. Il processo di pace che si stava svolgendo fra il principale esercito guerrigliero del paese e il governo del conservatore Belisario Betancur aveva illuso i tanti che confluirono nella Up di poter fare politica a viso aperto. Al suo apice l’Unión patriótica contava 16 sindaci, 256 consiglieri e 16 rappresentanti al congresso. Vent’anni dopo non esisteva più: tremila gli omicidi, fra cui due candidati presidenziali, 21 parlamentari, 11 sindaci, 70 consiglieri. Un genocidio politico. «Una ferita che non si rimargina – raccontava il prete – ancora oggi la gente vive con poco pane e tanta paura».
Oggi in Colombia si riprova a “far pace”: fra Farc e governo di Manuel Santos sono in corso da tre anni le trattative per firmare l’accordo che potrebbe porre fine al più lungo conflitto armato dell’America latina. La guerra civile colombiana in quasi sessant’anni ha fatto 220mila morti, migliaia di desaparecidos, 7 milioni di sfollati e uno smembramento violento della società, stretta fra guerriglieri, paramilitari, esercito governativo e narcotraffico. La Colombia è la piattaforma geopolitica più ambita del continente: filostatunitense anche quando gli altri paesi sudamericani si spostavano a sinistra, oggi potrebbe affacciarsi a un processo di rinnovamento a cui la società civile colombiana guarda con speranza.
“Oggi si firma la pace in Colombia”. Questa avrebbe potuto essere il titolone di tanti giornali lo scorso 23 marzo. Erano sei mesi – dalla stretta di mano a Cuba fra Manuel Santos e il capo delle Farc,Rodrig Londoño Echeverri alias ‘Timochenko’ – che nelle redazioni di mezzo mondo quella data era cerchiata in rosso. Le maggiori aspettative le aveva proprio il presidente colombiano: ai tavoli di pace, che dal 2012 andavano avanti a l’Avana, si era firmato l’accordo sulla giustizia, uno dei temi più complessi dei negoziati e già a ottobre 2015 davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite Santos aveva parlato della campagna per la pace colombiana. Questo gli aveva permesso di proseguire nell’ampia raccolta di fondi per il post conflitto, che sarebbe stato anche “benedetto” dalla popolazione colombiana con un plebiscito. Molti erano i segni favorevoli attorno alla data del 23 marzo: Obama aveva fissato la propria visita a Cuba per il 21 marzo, persino gli Stones avrebbero cantato gratuitamente nella plaza de la Revolucion. D’altra parte, l’egemonia Usa non è mai stata in discussione nello scacchiere colombiano: “Abbiamo accompagnato la Colombia in tempo di guerra, lo faremo anche in tempo di pace”, aveva detto il presidente statunitense a inizio 2016. Il riferimento esplicito era al Plan Colombia, l’accordo bilaterale siglato nel 1999 dal presidente colombiano Andrés Pastrana e dall’amministrazione Clinton, sostanzialmente per piegare la resistenza guerrigliera e sconfiggere il narcotraffico. Come ideale prosecuzione di quel pianoWashington ha già messo sul piatto 450 milloni di dollari.
Avrebbe potuto essere, insomma… ma le Farc hanno chiesto altro tempo: “Cinquant’anni di guerra non si cancellano con una firma” hanno detto, rimandando sine die la sigla dell’accordo. Il governo ha continuato a far finta di nulla, anche quando i sondaggi parlavano di un 80% di colombiani che non credeva in quel 23 di marzo. Ma se da una parte si chiude un portone, dall’altra si apre una porta: è notizia fresca che l’altro esercito guerrigliero, l’Eln, finora lontano dagli accordi di Cuba, ha aperto a un processo parallelo, con sede fra Ecuador e Venezuela.
* www.yaku.eu
(la versione integrale del reportage sarà pubblicata su “Nuova Ecologia” di maggio 2016)