Violenza e speranza si intrecciano nelle periferie urbane di Puerto Buenaventura, il più grande porto commerciale sul Pacifico della Colombia, dove la comunità locale cerca la rinascita attraverso la musica e la danza in un contesto di aperto conflitto.
Accolti dalle forze armate ed accompagnate dalla Comisión Intereclesial de Justicia y Paz, entriamo a Puente Nayero, una rete di palafitte nel barrio (quartiere) de La Playita che accoglie circa 500 famiglie, eretta lungo una strada costituita da accumuli di immondizia e pietre e che termina nella vastità dell’oceano: spazio di resistenza e rafforzamento collettivo che la comunità ha dichiarato nell’aprile 2014 come Zona Umanitaria. Una misura di protezione adottata dagli abitanti con il supporto di organizzazion i locali ed interanzionali per i diritti umani, in risposta agli omicidi e sparizioni forzate eseguite da attori paramilitari che nella zona mantengono vivo un sistema mafioso ed un clima di terrore.
Nella rete del narcotraffico e del paramilitarismo, nel quartiere de la Playita esistono tuttora le casas de pique, luoghi di tortura, attivi dagli anni ottanta in poi, ma che non hanno mia smesso di essere utilizzate. Per anni i cadaveri sono stati sparsi per le strade con lo scopo di incutere terrore. Circa 6 anni fa, questi fatti sono arrivati anche ai media locali e nazionali, ma senza mai questionare le cause strutturali e gli attori responsabili del massacro. Il risultato è stato il perpetuarsi di questi omicidi cruenti e la trasformazione del mare in un cimitero di corpi, in cui i bambini nuotano e giocano come se nulla fosse.
Nonostante la resistenza e l’organizzazione comunitaria di Puerto Nayero sia stata in grado di allontanare i paramilitari e chiudere la casa de pique locale permettendo così la diminuzione degli indici di mortalità per omicidio secondo quanto dichiarato dall’ONU – questa pratica continua in altri quartieri e la popolazione locale rimane sottomessa ad un sistema di tasse ed estorsioni mafioso che la condanna a minacce quotidiane e timore, come ci viene raccontato anche da un commerciante locale.
Una comunità ostacolata nell’esercizio della vita quotidiana, tanto che pochi giorni fa è stato rapito l’ingegnere che si stava occupando del progetto di allacciamento fognario, e hanno fatto sparire il macchinario apposito. Solo grazie al lavoro della Comisión Intereclesial de Justicia y Paz che ha dato visibilità ai fatti e ha denunciato l’accaduto alla polizia, sia l’ingegnere che il macchinario sono stati riconsegnati, facendo sospettare che dietro a tutto ci fosse la mano del paramilitarismo locale. Una realtà difficile da affrontare come ci raccontano gli abitanti dello spazio umanitario, dove la paura quotidiana si associa alla speranza e alla luch (lotta) a per un futuro di pace.
Tutto questo sotto gli occhi del governo che pare non voler intervenire e permettere un clima di violenza e impunità, con il mero scopo di perseguire il piano di ampliamento del porto commerciale che prevede lo smantellamento della zona abitativa per dare spazio a centri commerciali, hotel e mercati in una prospettiva di riqualificazione turistica. Il progetto, oltre dare priorità ad interessi economici ed incrementare le disuguaglianze sociali, non offre nemmeno un piano alternativo per i cittadini di Puente Nayero, costretti ad abbandonare la loro casa, forzati ad allontanarsi dal mare e cambiare la loro attività di pesca di sussistenza, in cambio di un futuro incerto. Un desplazamiento (allontamento) forzato, a cui la comunità sta reagendo con piccoli ma significativi passi.
Continuando la camminata per Puerto Nayero, incontriamo una delle donne elette dalla collettività che formano parte del Comité locale, una risposta tutta al femminile al conflitto che lacera la comunità. Ci racconta della lotta che ha portato avanti come donna, mamma e cittadina, per la dichiarazione dello spazio umanitario, il quale vuole essere un atto politico e di resistenza pacifica attiva dal basso, guidata da chi vuole porre fine ad un’esistenza di dolore e violenza. Nonostante le minacce ricevute, lei insieme ad altre donne ha creato un’associazione che organizza attività per i bambini e per l’intera comunità “Non vogliamo andare via dal nostro territorio, vogliamo rimanere qui. Io ho vissuto qui tutta la vita, sono nata e cresciuta qui. Queste strade le abbiamo costruite noi stessi quindi non vogliamo andarcene dal nostro spazio, stiamo lottando per questo”. Racconta inoltre che il governo vuole evacuare la zona con la scusa di un’allerta tsunami che potrebbe spazzare via tutto il barrio, ma la realtà è diversa come afferma questa lideresa “Si tratta di uno tsunami razzista perché il governo ci vuole mandare via per poi insediarsi qui”. Leggiamo molta forza negli occhi e nelle sue parole velate dalla fragilità e dalle paure che condivide con noi.
Con lei il figlio Gustavo, cantante del barrio, che con un pezzo rap ci racconta come i giovani del luogo trovano nella musica uno strumento di salvezza, una via per combattere la violenza e ristabilire la pace. Come lui, molti ragazzi e bambini hanno preso parte al progetto comunitario sostenuto da Justicia y Paz, per la sostituzione delle armi con strumenti musicali. Si prevede a breve anche la costruzione della Casa della cultura, un centro ricreativo per l’insegnamento della danza e della musica, uno spazio dove i bambini ed i giovani possano crescere con una visione di speranza e amore. Un progetto rivolto al futuro dove la cultura e la musica si pongono come risposta alla guerra, alla violenza, al dolore. La reazione pacifica di una comunità stretta nella morsa del narcotraffico e del paramilitarismo, repressa dal governo ed abusata in ogni suo diritto. Un’organizzazione dal basso che ha portato ad una diminuzione degli omicidi e all’eliminazione del coprifuoco che prevedeva la chiusura di case e negozi alle 16, con pesanti conseguenze per chi non rispettava l’ordinanza. Ora si respira un clima di maggior sicurezza, ci racconta José, clarinettista locale. “Prima ci sentivamo un po’ insicuri, ora ci sentiamo sicuri, possiamo tornare tardi la sera a casa senza nessun problema, senza paura”. La musica è “qualcosa che impegna i giovani […] ci fa pensare al futuro […] ci permette di uscire, interagire e conoscere nuove persone, per noi è una ricchezza”.
La speranza per un futuro di pace e resistenza si diffonde tra le vie dello spazio umanitario a ritmo di musica e passi di danza. Le note tessono forti legami comunitari che si oppongono alla fragilità che la strategia del terrore alimenta quotidianamente. Piccoli laboratori di resistenza, fatti di speranza e sorrisi per una rinascita collettiva.