Primo incontro della Rassegna #DonneInDifesaDi a Calceranica al Lago. Sala affollata per le due ospiti Agitu Ideo Gudeta e Caterina Amicucci che hanno raccontato l’Etiopia di oggi da chi l’ha vissuta ed è stata costretta a lasciarla, e chi l’ha conosciuta per attivismo ed azioni internazionali in difesa dei diritti delle popolazioni e contro i megaprogetti. Il Protagonismo femminile letto sotto la lente dell’economia finanziarizzata e in difesa dei territori, a partire dal Trentino.
“Nessuno parla delle condizioni che stanno sopportando le tribù in Etiopia: i contadini sono ridotti alla fame e non hanno più terre da coltivare” – ha raccontato Agitu Ideo, profuga politica etiope che ha dovuto scappare dal suo Paese e rifugiarsi in Trentino perchè perseguitata per il suo impegno contro l’accaparramento indiscriminato da parte delle multinazionali, di terre, acqua, risorse. “Il Governo ha sospeso solo lo scorso agosto lo stato di emergenza che durava da dieci mesi: questo ha significato un isolamento assoluto della popolazione, che dall’ottobre scorso non poteva comunicare via internet, e per chi vi abitava era precluso qualsiasi movimento dalla capitale. Però la comunità internazionale dice che l’Etiopia ha un governo “stabile”, e non fa trapelare lo stato di assoluta coercizione in cui versano i miei compatrioti”. Agitu si è dovuta fermare un momento, stretta dall’emozione di un racconto che le brucia sulla pelle. “Le donne rimaste sole, hanno dovuto mandare avanti intere comunità lavorando nei campi fino a 12 ore al giorno. Campi dove non c’è più una goccia d’acqua per la siccità tremenda che l’Africa sta soffrendo, e per i disequilibri ambientali che megaprogetti e fertilizzanti chimici stanno causando alla terra”.
“Ho lavorato per anni in Etiopia, coordinando la campagna contro la costruzione di una delle dighe più devastanti dell’area, la Gibe 3 sul fiume Omo. L’immagine che ho ben impressa negli occhi è quella dell’aeroporto di Addis Abeba: decine di sacchi che uscivano verso l’estero, frutto delle coltivazioni intensive di Paesi come la Cina, che hanno fatto dell’Africa il proprio granaio personale. E quello di decine di sacchi in entrata, quelli degli aiuti umanitari, su cui lo stesso governo etiope lucra. Quando ho conosciuto Agitu all’OltrEconomia festival di qualche anno fa, le sono corsa dietro perchè non mi era mai riuscito di parlare con un’etiope che poteva raccontare in prima persona quello che succede laggiù. Avere qui con noi una persona come lei è un’occasione incredibile”. Caterina Amicucci, blogger, attivista e collaboratrice di Un Ponte Per, ha tracciato la geopoltica del saccheggio, a partire da industrie italiane come la Impregilo Salini (leggi l’articolo di CRBM del 2009). “La finanziarizzazione dell’economia costruisce storture inimmaginabili come quelle della vendita dei certificati sul mercato dei crediti di carbonio: sulla fluttuazione di prezzo dei certificati di emissioni si possono strutturare prodotti derivati e altri strumenti finanziari complessi dai quali è possibile ricavare ulteriori guadagni. Le imprese possono quindi investire in progetti di energia rinnovabile nei paesi del Sud del mondo ottenendo un triplo guadagno e senza la necessità di dover ridurre le proprie emissioni. Per fare un esempio, l’Enel può continuare a produrre carbone a Civitavecchia – nonostante gli accordi di Kyoto e Parigi – se costruirà tante dighe in America latina: avrà molti certificati di emissioni che potrà rivendere sul mercato primario dei crediti di carbonio e strutturare operazioni finanziarie complesse sul mercato secondario. Le grandi dighe sono considerate impianti di energia rinnovabile, nonostante i devastanti impatti ambientali e sociali che comportano. Questo meccanismo perverso ha creato un inarrestabile corsa alla costruzione di nuove dighe. Siamo nella paradossale situazione in cui le infrastrutture idroelettriche non vengono più costruite per produrre energia e soddisfare i bisogni dei cittadini, bensì per i guadagni finanziari ad esse associati”. [Leggi anche il Ritorno delle Grandi Dighe]
In questo panorama, la connessione fra sistema economico e violenza sulle donne è un filo perverso che da una parte si accanisce sulle comunità indigene e contadine, che hanno con la terra un legame di dipendenza alimentare e spirituale; dall’altra, si struttura attorno a culture patriarcali e machiste, che scatenano la propria violenza sul corpo delle donne: “Una connessione, quella fra corpo delle donne e terra e territori, che in questo momento evidenzia uno squilibrio devastante”, ha concluso Agitu.
Dal pubblico che affollava la sala di Calceranica al Lago – che insieme alle amministrazioni di Tenna e Caldonazzo ospitano la rassegna promossa da Yaku – molte le connessione fra la dimensione globalizzata dell’economia basata su megaprogetti e landgrabbing, e quella territoriale della valsugana, che sta affrontando il dilemma della costruzione della Valdastico, che registra la ferma opposizione di amministrazioni e cittadini.
Prossimo incontro il 16 novembre a Tenna su Medio Oriente e donne costruttrici di pace.